La paura genera mostri
Valeria Vincentigiugno 2020
Sono un medico e, confesso, mi è impossibile capire il senso di quel che accade.
Ho appena terminato di vedere un video dove si mostrano gli spazi per i bambini del nido e della materna per un prossimo centro estivo, bambini che dopo aver superato con successo la barriera della pistola termometrica alla fronte ed aver disinfettato le manine con sostanze chimiche per nulla salutari, saranno accolti ognuno nel proprio esclusivo spazio isolato e recintato, con il personale tavolino di plastica, i propri giochi a loro volta disinfettati e con la maestra che lo guarda a distanza protetta da occhiali e mascherina.
La riprogrammazione neurologica che il Covid 19 sta manifestando parte da qui: dai bimbi più piccoli che invece di socializzare attraverso il contatto con gli altri, la vicinanza, l’attaccamento fisico, gli scambi percettivi sensoriali, il gioco comune, l’imitazione spontanea, saranno costretti a subire le ammonizioni
per il distanziamento, la lontananza fisica, l’impossibilità di vedere l’espressione del volto di chi lo educa e lo accompagna pedagogicamente, ormai ridotto a ruolo di secondino.
Non ci metteranno molto i bambini a diventare capaci di distanziarsi, ad avere paura della vicinanza dell’altro, a rifugiarsi nel solipsismo del gioco isolato che non è più possibile chiamare tale ma solo ripetizione autistica del nulla, a cadere nella depressione della mancanza di senso.
Ma anche a rischiare di diventare fobici e ossessivi, compulsivi della ripetuta pulizia e della disinfezione che ha come corollario il non toccare, non sporcarsi, in ultimo non giocare, che per il bambino equivale al non essere.
“L’uomo è uomo solo quando gioca”, ci ricorda Schiller in un saggio sull’educazione dove si sottolinea la profonda natura sociale e creativa dell’uomo che emerge dall’incontro ludico tra anime che si conoscono e
riconoscono giocando insieme, creando e ricreando forme, spazi, dimensioni, ove la fantasia trova un filo diretto con il Divino, fuori e dentro di noi.
Il bambino che gioca non sta trascorrendo il suo tempo trastullandosi; è impegnato mente, cuore, e volontà in un’attività serissima paragonabile ai più meritori lavori che impegnano noi adulti.
La sua salute fisica, psichica ed emotiva traggono beneficio dal gioco, il quale consente la strutturazione di apprendimenti comportamentali duraturi e utili per l’equilibrio individuale della sua crescita futura.
Il bambino che gioca mai si stanca, ma rigenera le sue forze di vita attraverso il gioco ponendosi in una ritmica relazione interiore tra sé e il mondo fuori di sé, ripetendo il gesto instancabile del nostro ritmo respiratorio o del pulsare del nostro cuore.
Impedire tutto questo è ben più grave che confinare i bambini in casa, dove almeno con la fantasia erano liberi nell’immaginazione: vedere l’altro ma non toccare l’altro è una vera tortura dell’anima oltre che del fisico.
Sappiamo che i bambini in questa nuova sindrome virale sono stati i meno colpiti.
I dati attualmente in possesso della comunità scientifica dimostrano di questo virus una grande contagiosità ma una bassissima letalità soprattutto per la popolazione infantile.
Perché allora separarli?
I bambini che frequentano uno stesso ambiente di gioco si affraternano, non solo fisicamente (a volte i bimbi che si frequentano abitualmente finiscono per somigliarsi), ma si contagiano psichicamente imitandosi, e si contagiano immunologicamente attraverso lo scambio di virus e batteri che circolano più
facilmente all’interno della stessa comunità.
Il nostro fisiologico sistema difensivo è la chiave della nostra evoluzione antropologica, culturale e fisica.
Il sistema immunitario immacolato del feto, dal momento in cui esso si impegna nel canale da parto e viene al mondo con il suo primo respiro, si contagia con il mondo fuori di lui, che a piccole dosi e continuamente egli porta dentro di sé per rinforzarsi, conformarsi, crescere e trasformarsi.
La parola contagio, oggi così temuta, non ha solo una valenza negativa: sappiamo tutti il valore del contagio culturale e dello scambio che da questo deriva. Contagio e contatto presuppongono relazione, interesse, trasmissione di valori e di conoscenze.
Ma nessuno si contagia in maniera identica, ognuno lo fa individualmente, che sia sul piano della trasmissione di una malattia o dell’acquisizione di nuove competenze culturali.
Come esseri in evoluzione ricerchiamo nuovi equilibri innovativi, resilienti e salutari per tutta la vita.
Lo facciamo sul piano fisico attraverso il sistema immunologico e tutto il correlato cellulare, organico, sistemico del riconoscimento del sé e del diverso da sé presente in noi, fisiologicamente e geneticamente, e che ci preserva o ci fa superare le malattie.
Lo facciamo sul piano psichico attraverso quella meravigliosa forza di imitazione che esercitiamo per tutta la vita, ma di cui è dotato in modo particolare il bambino piccolo e che gli permette di compiere da solo, senza nessun insegnamento esterno, i fondamentali passi dei primi tre anni che sono il camminare il parlare e il pensare.
Ma sappiamo che senza altri esseri umani da imitare i bambini non acquisirebbero queste tappe evolutive e tutti i successivi apprendimenti, e tristi esperimenti medievali ci confermano conseguenze grandemente drammatiche di tale grave deprivazione.
Chi e cosa potranno mai imitare i bambini nel recinto?
Così piccoli avranno istruzioni verbali dall’insegnante/guardiana di turno, con un precoce richiamo a forze di coscienza, disconoscendo totalmente le leggi dell’apprendimento intrinseco proprio di questa fase evolutiva basato sull’attività imitativa spontanea non verbale, dalla vicinanza fisica, dal contatto e dallo spontaneo esprimersi di forze di simpatia che li avvicinano a ciò cui si vogliono legare e fare proprio.
La relazione con l’adulto sarà viziata dall’impossibilità di leggere i segni non verbali che accompagnano ogni nostro agire e sentire, ovvero l’espressione mimica, nascosta dall’uniformante mascherina e la lettura dello sguardo dalla visiera o dagli occhiali.
Questa incapacità di interagire empaticamente con la totalità dell’essere che abbiamo di fronte nel volto, nello sguardo, nel sorriso, e che ci rende possibile lo sviluppo psichico sano dai primordi del nostro venire al mondo, sono veri attentati per la salute e la crescita del bambino.
L’analfabetismo espressivo ne sarà la diretta conseguenza; inoltre, se gli unici bisogni per i quali il distanziamento sarà superato saranno le necessità fisiche o fisiologiche dell’essere cambiati, nutriti e disinfettati, il bambino sarà portato ad una regressione a stadi precedenti, neonatali in cui era accudito in funzione del fatto che non poteva muoversi e non sapeva agire.
Veramente dobbiamo assecondare tutto questo?
A quali tipi di malattie psichiche dovremo far fronte nell’immediato futuro per le nuove generazioni?
Ci sentiamo davvero più sicuri noi adulti dopo aver isolato i bambini, o sentiamo di proteggere i nostri figli mandandoli in un nido/asilo del genere?
Di cosa abbiamo veramente paura immaginando possibile e salutare tutto ciò per i nostri bambini?
Dott. Valeria Vincenti
3 giugno 2020