Eutanasia e Senso della vita
Dr.ssa Maria Luisa Di SummaARTEMEDICA - n.56 - Inverno 2019 https://www.fondazioneartemedica.it/antroposofia-oggi/
Il tema dell’eutanasia è più volte emerso con forza nel corso degli ultimi anni, tornando recentemente in primo piano.
Il diritto alla rinuncia alla vita, quando la vita sembra perdere tutto ciò che la caratterizza positivamente, non è più qualcosa che oggi può essere negato
sulla base di argomentazioni religiose o etiche di stampo tradizionale.
E’ necessario ampliare lo sguardo su quegli aspetti del fenomeno che generalmente vengono meno osservati, se non si vuole cadere in contrapposizioni dialettiche, sempre fuori luogo, di fronte agli aspetti più profondi e drammatici dell’esistenza.
Il tema riguarda una vasta gamma di situazioni umane, che vanno dalla totale impossibilità per il soggetto di essere parte attiva in questa scelta, a causa delle sue condizioni di coscienza, fino al caso di una scelta consapevole, che configura, più propriamente, una richiesta di suicidio assistito.
In questo ultimo caso, il diritto all’eutanasia si presenta come un esplicito riconoscimento della società del diritto al suicidio, atto che è sempre stato condannato, larvatamente in ambito laico ed esplicitamente in ambito religioso.
Va preso, allora, atto del fatto che, mentre si afferma il diritto dell’individuo di disporre della propria vita e cioè il diritto alla libertà di rifiutarla, si chiede alla società un riconoscimento di questa libertà, in nome di una etica collettiva, cioè di un’etica regolata dal diritto giuridico.
C’è in questo una certa contraddizione, se riconosciamo che il fondamento della libertà e dell’etica poggia sull’individuo.
La vita però non poggia sull’individuo, ma sulla collettività, senza la quale l’individuo non potrebbe esistere, svilupparsi, vivere.
Rudolf Steiner ha sviluppato ampiamente e con chiarezza entrambe queste realtà.
Tali aspetti contraddittori, non possono essere risolti, a loro volta, se non nelle coscienze degli individui, alla luce di una compassione rettamente intesa, che non consente, a priori, né condanna, né approvazione.
Gli aspetti contraddittori che l’eutanasia presenta, in qualche modo, si rispecchiano negli attuali orientamenti della medicina, che mostrano una continua oscillazione tra la protezione della vita e la distruzione della vita, e in cui si presenta sempre più il problema della libertà del medico e del paziente .
Queste contraddizioni sembrano indicare una loro risoluzione logica solo nella speranza, di faustiana memoria, di poter creare la vita e di esserne padroni.
Recentemente è apparsa la notizia che l’Unione Europea ha stanziato 2,9 milioni di euro per finanziare una ricerca olandese sull’ utero artificiale.
Naturalmente si tratta di qualcosa che, allo stato attuale, è finalizzato alla sopravvivenza di quei prematuri nati prima di quel momento-limite in cui il polmone è in grado di respirare.
Ma si tratta di una tecnologia che, potenzialmente, consente di spostare questo limite fino ai primi momenti dello sviluppo embrionale.
In pratica, si cerca di ricreare un ambiente che presenta caratteristiche identiche a quelle dell’utero umano, con lo stesso calore, gli stessi scambi nutritivi, lo stesso sapore del liqui-do amniotico, la stessa percezione del battito cardiaco che il feto percepisce nell’utero materno.
In questo ambiente, come mostrano gli esperimenti con embrioni animali, il bambino potrà crescere e svilupparsi, cioè strutturarsi per la vita.
Ma cosa consente all’essere umano di stabilire un rapporto con la vita?
Ogni rapporto, per il vivente, è una relazione, cioè qualcosa che implica un riconosci-mento di ciò con cui si entra in relazione, a partire da una percezione sensoriale.
Nella sua antropologia, ampliando le tradizionali conoscenze dei sensi, Rudolf Steiner ne elenca dodici, tra cui il “senso della vita”, che ci rende immediata la distinzione tra ciò che è vivo e ciò che non lo è, cioè tra il mondo organico e quello inorganico.
Le sostanze presenti nel progetto dell’utero artificiale appartengono al mondo inorganico anche se sono formate ad imitazione di quello organico.
Non possiamo perciò non domandarci in quale modo, cioè con quali caratteristiche, si svilupperà il senso della vita di un bambino che si è strutturato sulla percezione di una vita artificiale.
L’ interrogativo che sorge è questo : come si adatterà quel bambino quando, dalla vita artificiale, passerà alla vita vera ?
La nascita, in quanto separazione e cambiamento, presenta sempre una certa valenza traumatica e non è certamente un senso di benessere quello che caratterizza i primi momenti di vita del neonato. Tuttavia, rapidamente, il bambino si adatta al cambiamento, sviluppando uno stato di cenestesi positiva, termine con il quale, anche nelle usuali teorie dei sensi, viene indicato in parte quanto il senso della vita vuole comprendere.
Ma la separazione del parto lascia comunque una continuità tra vivente e vivente,
tra l’utero della madre e le braccia della madre o comunque di altri esseri umani, ed è in questa continuità che avviene l’ adattamento.
Nella separazione- nascita da un utero artificiale, questa continuità non c’è e non possiamo sapere se il cambiamento sarà, per quel bambino, accettabile e se il suo senso del-la vita gli consentirà di riconoscere il vivente come un ambiente per lui piacevole o almeno sostenibile.
E’ oggi necessario porsi questi interrogativi, perché al senso della vita non solo si collega la percezione del proprio esistere, con ogni sensazione di benessere o di malessere che l’accompagnano, ma la stessa volontà di vivere.
Proprio il problema dell’eutanasia ci mostra che la volontà di vivere non è qualcosa di scontato e che, quando la vita diventa troppo dolorosa, la volontà di vivere può venire me-no e può sorgere un richiesta di morte.
Purtroppo la cronaca ha messo recentemente in evidenza come questa richiesta di morte possa presentarsi anche in situazioni in cui niente altro la giustifica se non una soggetti-va alterazione del senso della vita, che fa percepire questa come dolorosa ed inaccettabile .
Abbiamo visto il caso della richiesta di eutanasia di un’ adolescente fisicamente sana, recentemente riportato dalle cronache.
E’ già noto, del resto, come il suicidio sia sempre più, negli ultimi anni, la principale causa di morte dei giovanissimi, accanto all’ alta percentuale di incidenti.
Nella teoria dei sensi, presentata dall’Antroposofia, il senso della vita viene messo in re-lazione polare con il senso del pensiero.
Una certa devitalizzazione dell’organismo umano ha visibilmente accompagnato, nel corso della storia, l’evoluzione della civiltà e il manifestarsi del pensiero.
E lì, dove il senso della vita non è ben sviluppato, il pensiero può tendere a compensare questo deficit con una eccessiva attività.
Ma il pensiero, che così si attiva, è un pensiero morto, cioè un pensiero che non riconosce più che la propria capacità di elaborare il concetto, cioè di riflettere, è fondata sulla sua possibilità di percepirlo, in quanto elemento preesistente, vivente ed oggettivo.
Questo mancato riconoscimento del vivente, da parte del pensiero, ne fa uno strumento poco adatto alla comprensione di quanto è vivo e lo espone al rischio di una attività meccanica che porta fatalmente a soluzioni meccaniche, anche quando è mosso dalla volontà di sostenere la vita.
Ma una vita eccessivamente manipolata, ottenuta grazie alle conquiste della tecnica, nate da un pensiero che deve il suo sviluppo ad un inconsapevole elemento di morte, corre il terribile rischio di non essere accettata e di vedere aumentare le richieste di spegnerla.
Tali richieste, fatte dal singolo alla comunità, possono presentarsi, dunque, non solo lì dove accettare la vita significa accettare ulteriori dolorose e spesso inutili manipolazioni di essa, ma anche li dove è presente solo un alterato senso della vita, dovuto ad eccessive manipolazioni di essa a partire dalla vita intrauterina.
Il problema dell’eutanasia si presenta perciò molto più complesso di quanto potrebbe sembrare ad un primo approccio e comporta per il medico responsabilità più ampie di quelle che sembrano presentarsi al momento della scelta di prestare il proprio operato in un suicidio assistito.
Il compito del medico di difendere la vita non può essere assolto con un rifiuto ideologico dell’eutanasia ma deve svolgersi nel modo più ampio.
La ricerca in campo medico non difende la vita quando cerca di riprodurla senza una adeguata osservazione fenomenologica, non la difende quando imita sostanze naturali senza tener conto dei tempi e delle forme in cui si manifestano in natura, o quando crea nuove molecole che vanno a modificare un tratto circoscritto di un processo non abbastanza conosciuto nella sua totalità.
Né difende la vita quando considera totalmente estranea ai suoi compiti la ricerca del senso di questa vita, ricerca oggi giustamente affidata all’individuo ma proprio per questo non estranea alla terapia, se la terapia è affidata alla relazione medico- paziente e non solo a protocolli impersonali.
La difesa della vita è innanzi tutto difesa dell’individuo e le scelte giuste per la vita dell’ individuo non possono essere in contrasto con quelle giuste per la vita della comunità, come oggi appare invece possibile. Purtroppo questo contrasto sembra sempre più accentuarsi e si mostra con particolare evidenza lì dove il fattore economico irrompe nella medicina in termini di costi e benefici.
Le discussioni sull’eutanasia hanno visto prendere in considerazione anche questi aspetti, nei casi in cui il prolungamento della vita comporti costi assistenziali molto alti, aprendo il terribile scenario futuro di una società che sosterrà costi enormi per sostenere artificialmente l’inizio di una vita destinata poi ad essere artificialmente spenta.